Vai al contenuto

Pagina:Manzoni.djvu/109

Da Wikisource.

l’urania — l’idillio manzoniano. 107


Quanta maestà e virgiliana soavità di affetto in quel nostro! — A questo punto, nondimeno, il Poeta che non ha per anco rinunciato a tutte le reminiscenze della scuola, si ricorda troppo d’avervi studiata la Mitologia greca; onde quello stesso Manzoni che, pochi anni dopo, scriverà l’Ode satirica intitolata: L’ira d’Apollo, nella quale, in pena d’aver posto da banda le vecchie ciarpe mitologiche, il poeta riformato si farà giocosamente condannare da Apollo a non più bere l’onda Castalia, a non cingersi più la fronte d’alloro, a non più salire sul Pegaso, a non più volare, a cantar sempre in umile stile quello ch’egli sentirà e nulla più:

Rada il basso terren del vostro mondo,
Non spiri aura di Pindo in sua parola;
Tutto ei deggia da l’intimo
Suo petto trarre e dal pensier profondo;


quello stesso poeta, per rappresentare gli antichi beneficii che le nove Muse recarono un giorno ai mortali, immagina che, discesa dal cielo, la stessa dea Urania gli abbia un giorno cantati al poeta Pindaro. Non sono da sperare stupendi effetti poetici da una tale intonazione mitologica, e però tutto l’Inno, nel tutt’insieme, riesce manierato e freddo. Pure qua e là la natura potente vince l’arte delle scuole, e ne vien fuori qualche verso di calore, di colore e di sapore tutto manzoniano, ove l’effetto è proprio cavato, come in molte delle immagini dantesche, dalla potenza di meditar sopra le impressioni: questi, per esempio:

Fra il romor del plauso,
Chinò la bella gota, ove salìa
Del gaudio mista e del pudor la fiamma.