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226 i promessi sposi.

l’uno e l’altro scrisse sempre con un po’ di enfasi rettorica, con un po’ di pompa teatrale, che ad ogni lettore di buon senso, per poca che sia, deve sempre apparire soverchia. Il Manzoni dovea fin da giovinetto aver meditato il libretto del suo nonno Beccaria sopra lo Stile, un libretto scritto male, ma pensato bene;1 l’articolo del Verri intitolato: «Ai giovani d’ingegno che temono i Pedanti,» e i discorsi che si facevano contro l’Arcadia e contro la Crusca nell’Accademia, della quale l’Imbonati era stato presidente; ma, trovando poi giusto tutto ciò che si scriveva contro i parolai, gli Aristotelici della letteratura, i pedanti, i retori, egli credeva pure che si dovesse far qualche sforzo per mostrare che lo stile poteva acquistar nuova nobiltà dalla sua stessa naturalezza. Il Manzoni contribuì ad innamorare più fortemente l’odierna Italia della sua lingua, con l’occuparsene egli stesso per un mezzo secolo, col tornare pazientemente per tre lustri sopra la lingua de’ Promessi Sposi, col fine di

  1. «Nell’Italia nostra (vi si diceva) vi sono tuttavia gli Aristotelici delle Lettere, come vi furono della Filosofia; e sono quei tenaci adoratori delle parole, i quali fissano tutti i loro sguardi sul conio di una moneta, senza mai valutare la bontà intrinseca del metallo e corron dietro e preferiscono nel loro commercio un pezzo d’inutile rame, ben improntato e liscio, a un pezzo d’oro perfettissimo, di cui l’impronta sia fatta con minor cura. Immergeteli in un mare di parole, sebben anche elleno non v’annunzino che idee inutili o volgarissime, ma sieno le parole ad una ad una trascelte, e tutte insieme armoniosamente collocate nei loro periodi, sono essi al colmo della loro gioia. Mostrate loro una catena ben tessuta di ragionamenti utili, nuovi, ingegnosi, grandi ancora, se una voce, se un vocabolo, una sconciatura risuona al loro piccolissimo organo, ve la ributtano come cosa degna di quella.»