Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/181

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canto terzo 179


107.I’ men venia, sì come soglio spesso
quando l’estivo Can ferve e sfavilla,
in questo bosco a meriggiar là presso
in riva a l’onda lucida e tranquilla,
ch’una bolla vivente aperta in esso
di cavernosa pomice distilla,
e forma un fonticel, ch’a le vicine
odorifere erbette imperla il crine:

108.quando il mio piè, che per l’estrema arsura
(sì come vedi) è d’ogni spoglia ignudo,
con repentina e rigida puntura
ago trafisse ingiurïoso e crudo.
E ben ch’uopo non sia medica cura
per farmi incontr’al duol riparo e scudo,
colsi quest’erbe, il cui vigore affrena
il corso al sangue, e può saldar la vena.

109.Ma perch’ogni mia Ninfa erra lontano,
e chi tratti non ho l’aspra ferita,
porgimi tu con la cortese mano
(a te ricorro, in te ricovro) aita. —
Qui del trafitto piè, del cor non sano
l’una piaga nasconde, e l’altra addita,
e scioglie, testimon de’ suoi martiri,
un sospiro diviso in duo sospiri.

110.Non era Adon di roza cote alpina
né di Libica Serpe al mondo nato.
Ma quando fusse ancor d’adamantina
selce, e di crudo tosco un petto armato,
ogni cor duro, ogni anima ferina
fora da sì bel Sol vinto e stemprato.
Né meraviglia fia, qualor s’accosta,
ch’arda a fiamma vorace ésca disposta.