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canto quarto 263


251.La notte intanto i rai d’Apollo spense,
e giá con l’ombre Harpocrate sorgea,
e i balli suoi per l'alte logge immense
tra le Ninfe del Ciel Cinthia traea;
quando tornò da le celesti mense
di balsamo e di vin colma la Dea.
e tutta cinta d’odorate rose,
terminate trovò l’imposte cose.

252.«Non tua, né di tua man (se non m’inganno)
fu giá quest’opra, o scelerata» disse:
«opra fu di colui che per tuo danno
di te volse il destin che s’invaghisse.
Ma godi pur, ch’a l’un e l’altra stanno
le devute da me pene prefisse».
E partendo da lei, poi c’ha ciò detto,
consente al sonno, e si ritragge in letto.

253.Ne l’ora poi, che fa dal mar ritorno
l’Alba, e colora il ciel di rosa e giglio,
e ’n su l’aureo balcon che s’apre al giorno
rasciuga al primo Sole il vel vermiglio,
dal ricco strato e di bei fregi adorno
la pigra fronte e ’l sonnacchioso ciglio
sollevando Ciprigna, a la Donzella
sdegnosa tuttavia cosí favella:

254.«Vedi quel bosco, le cui ripe rode
precipitoso e rapido ruscello.
Pecorelle colá senza custode
pascon lucenti di dorato vello.
Io vo’ veder se pur con nova frode
t’ingegnerai di ritornar da quello!
Vattene dunque, e de le spoglie loro
recami incontanente un fiocco d’oro».