Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/130

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167.Del superbo diadema e del bel manto
le pompe a prova ammirano e i colori;
e con ossequii di festivo canto
gli fan per tutto il Ciel publici onori.
Non ha mai la Fenice applauso tanto
da l’umil plebe degli augei minori
qualor cangiando il suo sepolcro in culla
ritorna di decrepita fanciulla.

168.Ma chi può dir quante fortune, e quanti
gravi passò tra via rischi e perigli?
quai rapaci incontrò mostri volanti,
che vòlser nel suo sen tinger gli artigli?
Aquile e Nibi, a cui scampar davanti
poco giovato avrian forze o consigli,
se ’l celeste Tutor che n’avea cura
non gli avesse la vía fatta secuia.

169.Non però d’augel fiero unghia né rostro
gli nocque tanto in quella sorte aversa,
quanto il mostro peggior d’ogni altro mostro,
dico la Gelosia cruda e perversa.
Uscita questa del suo cieco chiostro,
con l’amaro velen che sparge e versa,
lo Dio del ferro armar gli parve poco,
se non facea gelar lo Dio del foco.

170.Venne a Vulcano, e le fu facil cosa
far nel suo core impression tenace,
ché per prova ei sapea l’infida sposa
d’ogni fraude in tai casi esser capace.
Rode men la sua lima e piú riposa,
attizzata da lui, la sua fornace,
che non fa di quel tarlo il morso fiero,
che non fa la sua mente, e ’l suo pensiero.