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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/212

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215.Poi che l’impure fiamme il sangue estinse
che da le vene un sventurato aperse,
còltolo in vasel d’or, la man v’intinse
Argene, e ’l maritai cener n’asperse.
Poi chiamandolo a nome, il brando strinse,
e l’estremo del ferro entro v’immerse.
Confermò ’l voto, e pianse; alfin di lei
cessare i pianti, e cominciare i miei.

216.D’Heliopoli a Menfi, ov’è la sede
principal de la reggia, e ’l maggior trono,
riede la Corte, e la Reina riede:
io l’accompagno, e mai non l’abbandono.
Seguo colei che, come il core, il piede
tragge a sua voglia, onde piú mio non sono.
Patria non curo, e fatto Egizzio anch’io,
per la Fenice mia Fenicia oblio.

217.La fama intanto a dissipar si viene
che crear qui si deve il Re novello,
onde d’Egitto alfin si parte Argene,
e con seco ne trae l’Idol mio bello,
e passa a Cipro, e ’n Pafo si trattiene:
quivi dimora entro il reai castello;
ed a gran volo di spalmato legno
tosto a Cipro ed a Pafo anch’io ne vegno.

218.D’un guardo almen, d’un detto (altro non cheggio)
cheggio appagar l’innamorate voglie.
Volgo mille pensier; ma che far deggio,
se parlarle e mirarla il Ciel mi toglie?
Modo trovar non so, mezo non veggio
da dar picciol conforto a tante doglie,
o come a conseguirne il fin bramato
recar mi possa agevolezza il fato.