Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/281

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67.Giá del mio bene entro le braccia accolto
vissi un tempo e godei felice amante.
Ma l’iniqua Fortuna altrui piú molto
larga in donar, che ’n conservar costante,
meco non mutò giá, mutando volto,
la sua natura lubrica e rotante,
anzi tante miserie ha in me versate,
che n’avria ancor la Crudeltá pietate.

68.Misero, e che mi vai tra doghe e pene
agli andati piacer volger la mente,
se la memoria de l’antico bene
raddoppia il novo mal, che m’è presente!
A queste luci ognor di pianto piene
de la notte natal par rOrfente,
ed amo l’ombra assai piú che la luce,
poi che ’n sogno il mio Sole almen m’adduce.

69.O memorando, o miserando essempio
de l’amaro d’Amor dolce veleno!
Qual egli mai piú dispietato scempio
fe’ di questo, ch’io soffro, in altro seno?
Da l’una a l’altra Aurora ingombro ed empio
d’affannati sospir l’aere sereno,
né Sol, né stella, ove ch’io vada intanto,
sparger giá mai mi vede altro che pianto.

70.S’io non deggio veder piú que’ begli occhi
per cui languir, per cui morir mi piace,
serrinsi i miei per sempre, e non mi tocchi
raggio piú mai de la diurna face. —
Qui, come Morte in lui lo strale scocchi,
s’abbandona d’angoscia, e geme, e tace,
e da l’interno foco, onde sfavilla,
liquefatto per gli occhi il cor distilla.