Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/355

Da Wikisource.


107.Perdónimmi begli occhi, e biondi crini,
scusino l’ardir mio labra odorate.
Ben che sien fresche rose, e sien rubini,
ben che sien fiamme ardenti, e fila aurate,
de la mano ai candori alabastrini
io vo’ la palma dar d’ogni beltate.
Cedan gli ostri a le perle, e ceda il loco
l’oro a l’avorio, ed a la neve il foco.

108.Ancor che belle e ciglia, e chiome, e bocca,
non son, com’è la man, pegni di fede.
Quelle si miran sol, questa si tocca,
e può felicitar chi la possiede.
Da quelle Amor le sue saette scocca,
questa sana le piaghe ond’egli fiede.
Quelle per arder l’alme accendon l’ésca,
questa gl’incendii suoi tempra e rinfresca. —

109.Tacque con questo dir, né fur parole
(come il fatto mostrò) fallaci o false,
perché se bene in cima a l’alta mole
di scaglione in scaglion Clorillo salse,
a lei però, che colassú si cole,
la corona di man sveller non valse;
sí che tornato onde partí pur dianzi,
un altro emulo suo si trasse innanzi.

110.Rodaspe in Meroe nato, in quella vece
vòlse (quantunque invan) tentar la sorte.
Publicò sue fattezze, e mostra fece
di pelle arsiccia, e brevi chiome attorte.
Vincon col fosco loro ebeno e pece
nari aperte e schiacciate, e labra sporte;
ed è de’ lumi suoi l’orbe visivo
nero piú de l’inchiostro onde il descrivo.