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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/479

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115.S’Atropo ha rotto in su ’l rotar del fuso
il fil de l’ore mie ridenti e liete,
ed a l’ombre de l’Orco, ov’io son chiuso,
dato m’ha prigionier, deh non piangete,
poi che de’ vostri amori anco laggiuso
ha ch’io sempre mi glorii in riva a Lethe.
Uom piú viver non dee, cui tanto lice:
e morendo per voi, moro felice.

116.A dio, mi parto, ir mi convien fra l’alme
il cui pianto a pietate altrui non piega. —
Cosi dicendo, le tremanti palme
tender si sforza, e ’l duro ferro il nega:
il duro ferro, che d’indegne salme
con tropp’aspro rigor le man gli lega.
A quel moto, a quel suon di ferri scossi
sciolsesi il sonno, e Citherea destossi.

117.Da quella vision tremenda e fiera
sbigottita si leva, e nulla parla.
Ben si consola assai, che non fu vera,
duolsi sol ch’ei svaní senza abbracciarla.
Esce lá dove la festiva schiera
sta di mille ministri ad aspettarla,
e mentre che le fan folta corona
le Ninfe Citheree, cosí ragiona:

118.— Giá vosco in questa a me terra diletta
indugiar piú non posso, o fide mie.
Giá la custodia del mio ben m’aspetta,
e mi richiama a le magion natie.
Troppo de l’altru’ invidia il cor sospetta
non mel vada a furar per mille vie.
L’onda del mar da la rapace arsura
de’ ladroni d’Amor non m’assecura.