Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/491

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163.Con semirotti e singhiozzati accenti
la Dea del terzo Ciel cosí si dole,
ma tanto il duol s’avanza in fra i lamenti,
che le lega la lingua e le parole.
Alza la fronte e i pigri occhi dolenti,
giá vicino a l’Occaso, il suo bel Sole,
ma vacilla lo sguardo, e sparge insieme
l’alma dal petto, e queste voci estreme:

164.— Fa’ forza al duolo, o mia fedele, e stendi
la mano alquanto a la mia man — le dice. —
Prendi quest’arco infortunato, e prendi
questa faretra mia poco felice.
Poi l’uno e l’altra al sacro tempio appendi
da la Dea boschereccia e cacciatrice.
Fa’ che restin per sempre ivi sospesi
con l’armi infauste i malvestiti arnesi.

165.Eccomi al passo ove convien pur ch’io
scenda laggiú tra gli amorosi Spirti,
doppiando a Stige ardor con l’ardor mio,
crescendo ombra con l’ombra ai verdi mirti.
Ma ciò ben mi si dee, ché fui restio
(e perdon te ne cheggio) ad ubbidirti.
Arma tu di costanza il petto franco
meglio ch’io non armai di strali il fianco.

166.Io poi che da le stelle è giá prescritto
irretrattabilmente, e dagli Dei,
che da crudo animai deggia trafitto
oggi morir su ’l fior degli anni miei,
cedo al destin, né in tale stato afflitto
piú (se potessi ancor) viver vorrei.
E qual mai piú vivendo avrei conforto,
se ’l mio caro Saetta a piè m’è morto?