Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/509

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235.Or qual rabbia infernal? qual ira insana
stimulò sí la tua spietata fame?
Com’osò la tua gola empia e profana
di tal ésca cibar l’avide brame?
Potesti esser sí cruda e sí villana
in accorciar quel dilicato stame?
Oh di tal feritá ben degna prova!
Rea ventura dal Ciel sovra ti piova. —

236.La Bestia allor, che d’amoroso dardo
il salvatico core avea trafitto,
quasi mordace can, ch’umile e tardo
riede al suo correttor dopo il delitto,
a quegli aspri rimproveri Io sguardo
levar non osa oltremisura afflitto.
Pur la ruvida fronte alzando in suso
in sí fatti grugniti aperse il muso:

237.— Io giuro (o Dea) per quelle luci sante,
che di pianto veder carche mi pesa,
per questi Amori, e queste funi tante,
che mi traggono a te legata e presa,
ch’io far non vòlsi al tuo leggiadro amante
con alcun atto ingiurioso offesa.
Ma la beltá, che vince un cor divino,
può ben anco domar spirto ferino.

238.Vidi senz’alcun velo il fianco ignudo,
il cui puro candor l’avorio vinse,
ché per farsi al calor riparo e scudo
de la spoglia importuna il peso scinse;
onde il mio labro scelerato e crudo
per un bacio involarne oltre si spinse.
Lasso, ma senza morso, e senza danno
l’ispide labra mie baciar non sanno.