Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/508

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231.Cosí qualor da le granite spiche
scote su l’aia il metidor l’ariste,
agli essercizii lor van le formiche
rigando il suol di lunghe e nere liste.
Cosí tra lor le cure e le fatiche
partendo, in piú d’un stuol schierate e miste,
vanno a rapire i piú soavi umori
l’api dorate agli odorati fiori.

232.Giá la selva si cerca e si circonda,
ciascuno il primo a prova esser s’ingegna.
Trovano in tana alfin cupa e profonda
la Fera, che del giorno il lume sdegna,
e con la bocca ancor di sangue immonda,
poi ch’offesa ha colei che ’n Cipro regna,
e còlto il fior di cosí nobil vita,
quivi di tanto error vive pentita.

233.Tirata è fuor del cavernoso sasso,
altri la gola, altri le gambe allaccia.
Chi sferza con la corda il fianco lasso,
chi da tergo con l’arco oltre la caccia.
Move tardo e ritroso il piede e ’l passo,
timida trema, e sbigottita agghiaccia
l’orrida prigioniera, e ’nvan si scote,
a cui la Dea parlò con queste note:

234.— O di qualunque mostro aspro e selvaggio
piú maligna e crudel. Furia, non Fera,
tu far ardisti a quel bel fianco oltraggio,
che de’ colpi d’Amor degno sol era?
tu di quel Sol discolorare il raggio,
che facea scorno a la piú chiara sfera?
romper d’un tanto amore il nodo caro?
e ’l dolce mio contaminar d’amaro?