Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/555

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147.Ma che? Ben pagherai d’un tanto torto
la pena in breve, di quel lume privo
che quel terreno Sol, ch’oggi m’hai morto,
indegno fu di rimirar giá vivo.
Ben che ’l tuo sdegno insano e poco accorto
util gli fu, per essergli nocivo:
d’uccider ti credesti Acide mio,
e t’avedrai che d’uom l’hai fatto Dio».

148.Sí dice, indi quel corpo amato e bello,
ch’incapace è di vita, e di salute,
trasforma in chiaro e limpido ruscello
con la divina sua fatai virtute;
e poi c’ha del gentil fiume novello
con le lagrime sue Tacque accresciute,
il salso in un col dolce umor confonde
e rimescola insieme onde con onde.

149.Udiste, o Dei, del fiero il crudo sdegno,
non giá quanto a seguir n’ebbe dapoi.
Io ’l so, che ’l vidi, e parmi ancor ben degno
da ricordarsi e raccontarsi a voi.
Io ’l vidi, e ’l so, però che ’l vago ingegno
intento ad osservar negli atti suoi
ciò che disse, e che fe’, ciò che gli avenne,
piú salda impression mai non ritenne.

150.Cosí vedrete alfin, che pur il colse
la bestemmia fatai di Galathea:
onde quant’egli errò, tanto si dolse,
perdendo il Sol, la forma, e la sua Dea.
La giusta legge del destin non vòlse
ch’impunitá n’andasse opra sí rea.
Sovente vendicar le cose belle
(come simili a lor) soglion le stelle.