Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/569

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203.Chi sa se ’l Re de l’amoroso regno,
del cui foco il mio cor sí forte avampa,
spingendo di sua man l’acceso legno
smorzò de l’occhio mio la chiara lampa?
Forse ch’a me, com’a fedel piú degno,
vòlse il viso onorar de la sua stampa.
Giusta legge stimò forse il protervo
che s’è cieco il Signor, sia cieco il servo.

204.Ma d’altra parte a chi da tante oppresso
gravi cure d’Amor si strugge e sface,
che perduto ha col core anco se stesso,
perduto ogni suo bene, ogni sua pace,
poca perdita ha perdere appresso
del Sol la luce, e cieco esser mi piace,
se quanto a l’altrui vista è di diletto
fora infausto a la mia doglioso oggetto.

205.Xon ha per queste rive o tronco o foglia,
non poggio adorno di fioretti e d’erbe,
che visibil imagine di doglia
in sé stampata per mio mal non serbe,
e ch’a quest’occhio la cagion non soglia
rappresentar de le mie pene acerbe,
a quest’occhio meschin, ch’or chiuso e spento
piú non fia spettator del mio tormento.

206.O ch’a quest’aspra rupe io lo girassi,
o ch’a questo scosceso arido scoglio,
veder pareami negli alpestri sassi
la durezza del cor, per cui mi doglio.
Yedea nel mar qualor piú irato fassi
il tuo superbo e minaccioso orgoglio;
e ne Tonde, ne Taighe, e ne l’arene
il numero vedea de le mie pene.