Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/570

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207.Se d’Alfeo, se d’Oreto, o se d’Himera
Tacque per risguardar volgea la fronte,
tosto presente il simulacro m’era
di quel ch’io verso inessiccabil fonte.
Se la fiamma scorgea torbida e nera
ch’erutta la voragine del monte,
i miei sospiri fervidi e fumanti
e gl’incendii del cor m’erano avanti.

208.Misero, e quante volte i tronchi vidi
stringer le viti e l’edere seguaci?
e le conche tra lor per questi lidi
i nodi raddoppiar saldi e tenaci?
e i solitari mergi entro i lor nidi
darsi e i colombi affettuosi baci?
ed invido fra me dissi sovente:
«Deh perché voi felici, ed io dolente?»

209.Ma che tnembrar d’altrui, quasi molesta,
ogni gioia amorosa, ogni atto estrano?
Quante volte vid’io te stessa in festa
scherzar col Vago, ed io mi dolsi invano?
Sasselo il giusto sasso, e sassel questa
del torto mio vendicatrice mano,
che rotto il dolce nodo, e sciolto il laccio,
si te l’uccise (e ne piangesti) in braccio.

210.Oltre di ciò non poco io mi consolo
che la mia luce in tenebre si cange,
però ch’avezzo al pianto, e nato al duolo,
altro non so che trar de l’occhio un Gange.
Or l’occhio inteso ad un ufficio solo
piú non s’occúpa in risguardar, ma piange:
e piangerá fin che col pianto unita
stillandosi per l’occhio esca la vita.