Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/582

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255.Non sí veloce di difficil arco
al bersaglio volando esce saetta,
né Barbaro giá mai sí lieve e scarco
da le mosse a la meta il corso affretta,
com’ei passando a nuoto il picciol varco
per tragittarsi ove ’l suo cor l’aspetta,
vassene, e prende ogni procella a gioco,
per mezo l’acqua a ritrovare il foco.

256.Dolce gli è la fatica e la dimora,
grata la notte, ed importuno il giorno,
e costretto a partirsi, odia l’Aurora,
che sollecita è troppo a far ritorno.
Partito a pena poi, di ciascun’ora
conta i momenti e gira gli occhi intorno.
Tornar vorrebbe a la magion felice,
e sospira l’indugio, e tra sé dice:

257.«Son forse per gli sferici sentieri
rotti i cerchi del Ciel sempre rotante?
Son del Rettor del dí zoppi i destrieri?
Chiodato è il carro suo lieve e volante?
Chi del Vecchio, che vanni ha sí leggieri,
chiuse ha tra ceppi le spedite piante?
Che fan l’ancelle sue rapide e preste,
che non dan fretta al passaggier celeste?

258.Tu che non men del Tempo, Amor, hai l’ali,
e sei del Sol vie piú possente Dio,
pungi i pigri corsier con gli aurei strali,
ch’ogni minuto è secolo al desio.
Pur ch’abbia fin co’ turbini infernali
questo divorzio, e quest’essilio mio,
con far veloci i giorni, e l’ore corte,
bramo a me stesso accelerar la morte».