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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/590

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287.Ma pria che ’n tutto abbandonato e stanco
tra que’ globi spumosi involto péra,
mentre mira il ciel buio, e che vien manco
de l’amato balcon l’aurea lumiera,
traendo pur de l’affannato fianco
il debil grido, esprime umil preghiera,
e manda fiochi, e fievoli, e dolenti
a te madre d’Amor, questi lamenti:

288.«Diva, che nata sei di queste spume,
deh raffrena il furor de Tonde irate,
e poi ch’è spento il giá cortese lume,
ch’a quelle mi scorgea rive beate,
al suo svanir del tuo benigno Nume
e la luce supplisca, e la pietate.
Non voler consentir ch’uccidan Tacque
un servo di colei che di lor nacque.

289.Ma se ’l mio duro fin scritto è nel fato,
se ’n quest’onde morir pur mi conviene,
fa’ ch’almen sia ’l cadavere portato
innanzi a la cagion de le mie pene,
a quel terren felice e fortunato,
a quelle dolci un tempo amiche arene,
onde mi dian col pianto alcun ristoro
quegli occhi, per cui vissi, e per cui moro».

290.Di quest’estremo dir languido e mozzo
incerto il suono ed indistinto udissi,
e sepolto con l’ultimo singhiozzo
restò nel mar, che ’nfin dal centro aprissi.
Il mare in vista spaventoso e sozzo
le fauci aprí de’ suoi cerulei abissi,
e spalancando la profonda gola
il corpo tracannò con la parola.