Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/61

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203.Io gelo dunque, io ardo, e non sol ardo,
son trafitta e legata, e ’nsieme accesa.
Sento la piaga, e pur non veggio il dardo,
le catene non trovo, e pur son presa.
Presa son d’un soave e dolce sguardo,
che fa dolce il dolor, dolce l’offesa.
Se quel ch’io sento è pur cura amorosa,
Amor, per quel ch’io sento, è gentil cosa.

204.È gentil cosa Amor. Ma qual degg’io
in amando sperar frutto d’Amore?
Io frutto alcun non spero e non desio:
dunque ama invan, quando pur ami, il core.
Cor mio, deh non amar: quest’amor mio,
se speme noi sostien, come non more?
Lassa, a qual cor parl’io, se ne son priva?
E se priva ne son, come son viva?

205.To vivo, e moro pur; misera sorte,
non aver core, e senza cor languire,
lasciar la vita, e non sentir la morte,
ahi che questo è un morir senza morire.
O da l’anima il core è fatto forte,
o anima è del cor fatto il martire,
o quel che ’l cor da l’anima divide
è strai che fère a morte e non uccide.

206.Ucciso no, ma di mortai ferita
impiagato il mio cor, vive in altrui.
Quei ch’è solo il mio core e la mia vita
l’aviva sí ch’egli ha sol vita in lui.
Meraviglia ineffabile inudita,
io non ho core, e lo mio cor n’ha dui:
e per quella beltá ch’amo ed adoro,
sempre vivendo, immortalmente io moro.