Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/109

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si contenterá di questa sodisfazione e vorrá perciò deporre Io scropolo del suo sospetto. Intanto io vivo sospeso dell’essito del negozio, stanco da un si lungo arresto, dove saranno oggimai nove mesi ch’ io mi ritrovo ritenuto. E dovrebbe e potrebbe S. A. restar contento ch’io non dimorassi piú tempo serrato in questa tomba di quel che mi stetti chiuso nel ventre di mia madre, se bene in quello dopo i quaranta giorni io abitai vivo, ma in questa posso dire di esser cadavere. Che l’auttoritá di cotesti serenissimi signori con questa Altezza sia per me riuscita vana, l’attribuisco non a lor mancamento ma a mia disaventura, la quale, mentre si tratta d’interesse a me tanto importante, le forze stesse de’ potentati grandi fa divenir deboli. Le replicate instanze sogliono aggiunger vigore alle dimande. Ma io non ardisco d’esser tanto importuno. Pure, quando per opera di V. S. mi fusse impetrato quest’onore, mi recherei a favor doppio se le lettere venissero indirizzate qui al signor marchese di Villa con commessione ch’egli l’essibisse di sua mano, accioché, facendole presentare io, non paressero mendicate. La somma del contenuto ha da essere, se non la libertá, almeno la restituzione delle scritture. Il che mi sarebbe di non picciolo sollevamento e refrigerio in questa disgrazia, e crederei d’alleggerire in gran parte il peso delle mie tribulazioni sforzandomi d’ingannar l’ore troppo per me lunghe e rincrescevoli con l’essercizio dello studio e con terminare molte mie fatiche imperfette. Giuro a V. S. con ogni sinceritá che questo è il piú acuto dolore che fra tante sciagure mi si faccia profondamente sentire infino al vivo del cuore, percioché non posso legger libro né toccar penna che subito l’ intelletto non corra a quel che ha giá scritto. Tutta quella vena, che fuor di qua pareva fertile e corrente, qua entro si è secca e impigrita. Le muse abitano le delizie e non gli orrori. Apollo ama le sommitá de’ monti e non entra a rischiarar l’oscuritá delle carceri. Le buone poesie nascono dagl’intelletti sereni, sollevati dall’aure della prosperitá, e non dagli ingegni torbidi, agitati dalle procelle degli accidenti fortunevoli. Mal si può cantare allo strepito delle chiavi ed allo stridore de’ catenacci, e questi cancelli hanno cancellato dall’anima mia gran