Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/239

Da Wikisource.

CXLIII

Al signor Giovan Battista Ciotti

Si duole degli errori tipografici della Galeria , e chiede stampe di Fiandra.

Ho veduto una parte della Galeria stampata nelle mani di questo eccellentissimo signor ambasciator veneto, a cui è stata mandata di costá; e vi giuro che leggendola mi è venuta compassione di me stesso, poiché mai né dalle vostre né dalle altre stampe è uscito libro piú scorretto e piú sconcacato di questo. Veramente io non credeva che l’ opere mie dovessero essere strapazzate a questo modo e, non avendo io interesse alcuno con voi, non dovevate voi averne tanto con esso meco, che non si avesse riguardo alla mia riputazione piú che alla mercanzia, almeno nella prima impressione. Ma se voi non vi curate dell’onor mio, né io mi curerò del guadagno vostro.

Io non mi lamento tanto di voi quanto di cotesti correttori ignoranti (se pur da alcuno sono stati riveduti i fogli), che, avendo il mio originale innanzi chiaro ed intelligibile, non l’hanno saputo né leggere né intendere. Lascio il carattere, il quale è si frusto che le parole non s’intendono. Vengo a quel che importa. L’ortografia mutata, le voci alterate, le sentenze corrotte, i sentimenti guasti ; dove bisognano i capiversi con le maiuscole che si sporgano in fuora, non vi sono, come nel ritratto d’Aristotele, che non si conosce se sia canzonetta o inadriale; dove le maiuscole tonde ne’ titoli vorrebbono essere alquanto piú grossette di quelle de’ nomi propri particolari, son tutte le medesime; le linee ch’io avea tirate nel fine di ciascun capo per dividere l’uno dall’altro, non vi sono, talché non si sa donde cominciano né dove finiscono le materie; sono stati messi i fiori dove non son necessari, per confondere maggiormente il lettore; sono state lasciate le facciate meze vacue non so perché, potendosi continovare e riempire con l’ altre composizioni; sono state poste delle parole a fantasia dello stampatore in luogo delle mie, come in quel sonetto burlesco: «N., a fé* che ’l tuo ritratto è bello»,