Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/268

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fastidiosette, che senza perdonare a chichesia pungono rabbiosamente? Non ha dubbio che ciò per lo piú non d’altro fonte suol nascere che d’invidia, perché pensano costoro col censurare gli uomini illustri di rischiarare i lor nomi ruginosi e acquistarsi qualche grido, ché altrimenti sempre abietti e sconosciuti se ne starebbono; in quella guisa istessa ch’Erostrato con l’incendio del tempio di Diana si fece famoso, e Pilato per la scelleragine della sua ingiusta sentenza si canta ogni giorno nel Simbolo per le chiese. Certo colui che fu il primo a porre il nome a questo vizio, con gran ragione chiamollo «invidia», poiché Timido par che non vegga l’altrui bene, ma osserva solamente il male e, tutte quelle cose lasciando da parte che in una scrittura sarebbono per aventura lodevoli, volge gli occhi solo a’ quei pochi mancamenti che potrebbono essere riprensibili. Orazio, quantunque fosse giudice de’ poemi molto severo, sapendo nondimeno le difficoltá che nel comporre si passano, si contentava di rimetter loro molti falli che gli parevano degni di perdono.

Sun/ delieta tamen, quibus ignovisse velimus: navi neque chorda sommi reddil, quem vidi manus et niens, posceutique graverò persaepe remittit acutum, nec semper ferie!, quodeumque minabitur , arcus.

E conoscendo egli ottimamente che non tutte le palle (come dir si suole) riescono ritonde e che in un bel corpo si può tolerare qualche neo, qualche pelo o qualche picciola ruga, senza pregiudicio del resto, scusava molte colpe leggiere ne’ componimenti, in quegli altri versi:

Veruni ubi piar a nitent in cannine, non ego paucis offenda r maculis.

Veramente soverchio rigore gli pareva voler guastare l’integritá del tutto per una particella e dannare a morte un’opera di chiaro auttore per un minimo peccatuzzo. Ché se nelle cose di coloro che furono in maggior credito ne’ tempi addietro