Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. II, 1912 – BEIC 1873537.djvu/151

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principi universali definire qualunque contesa civile. Onde aviene che quei infelici dottori, che, avendo riposto tutto lo studio loro in cumulare e repertoriare decisioni e conclusioni e farsi numerosa suppeletile di risoluzioni e casi particolari, senza impossessarsi bene de’ principi dell’arte, e senza ruminare col giudizio legale, e col caldo del discorso digerire e convertire in sua sostanza i termini della professione, all’incontro d’un dubio del quale non parlino i repertori litteralmente, restano nell’aridezza del loro ingegno miseramente arenati.

Altri l’accusano ch’egli nel leggere non approvi la sua opinione con longa schiera e nomenclatura di dottori, senza cumulare communi opinioni. Ma se le questioni legali, massime su le catedre, si dovessero terminare col numero degli autori e non col peso delle ragioni, e se l’allegare tanti dottori non servisse piú per pompa di chi parla che per utilitá di chi ascolta, ragionevole sarebbe l’accusa. Chi institui le scole di leggi non ebbe altro pensiero se non col mezzo de’ professori formare nelle tele degli ingegni de’ giovani la cognizione de’ termini, alla sola luce di quei gran giurisconsulti, Papiniano, Vulpiano, Paolo, Affricano, Scevola e compagni. E di questa mia opinione ve ne sono molti anco costi, e per mille e piú basti il testimonio del signor Cardinal Pio, mio signore, ch’io ho inteso da Sua Signoria illustrissima ch’egli non conosce ingegno piú elevato e spiritoso al mondo del signor Achillini. E non senza ragione quel valente oltramontano riprese gl’italiani scrittori: «O scelus italo rum iuris professorum, praetermissis purissimis legum fontibus, venenatas neotericorum lagunas insectari et, neglecto Codice, invigilare Borgnino». E quei scolari che sopra i testi solamente si sono affaticati, trapassando poi dai ginnasi ai fòri, francamente maneggiano i consegli, le decisioni, i trattati e tutta la faragine legale.

Ma faragine sarebbe questa mia se piú oltre trascoresse la mia penna, la quale da altro spirito non è mossa se non da quello della veritá. E ve la bacio.

Di Roma, 3 gennaro 1617.