Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. II, 1912 – BEIC 1873537.djvu/301

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esposizioni che da altri vi si facevano, soggiunge, per rendere l’avvenimento piú mirabile, queste formate parole: «Perché non ci metton mano questi umoristi, se credono tante cose?». Dove chiaramente pare che s’alluda agli accademici di Roma d’oggidi, tanto partegiani di V. S., i quali ancor essi s’intitolano «Umoristi». Il sonetto è quello che comincia: «Il nobil cavalier messer Marino». Ora che direm noi di questo tal luogo burchiellesco? Vorremo affermar forse che anco qui s’intenda della persona di V. S., e che quell’autore abbia e satirizato e profetato insieme, biasimando chi avea da nascere tanti anni dopo la sua morte? Certamente no. Ma piú tosto diremo ch’egli intenda di uno altro ch’allora viveva, al quale V. S. ha oggi simile nome ma non simili pecche, e che qui il caso abbia mostrato la sua solita possanza del produrre spessamente eventi da far trasecolar di stupore.

Troppo avremmo da fare, padron mio, se volessimo andar movendo ogni pietra per veder che cosa vi sia sotto; ed il meglio è che tolleriamo il mondo con quei difetti con che l’abbiamo trovato, ma in particolare tolleriamo la similitudine che talora si trova essere nelle cose’ diverse. Non è novitá insolita il potersi intendere alcuna parte de’ nostri ragionamenti in altra significanza da quella in che furon detti. Anzi ciò succede ogni giorno cosi nel parlare come nello scrivere, abbondando nativamente tutti i linguaggi di questo inevitabil vizio della equivocazione, causato in loro dalla necessitá, come fa fede Aristotele nel primo degli Eteriche : «Nomina suni finita, res vero infinitae. Ideo necesse est unum nomen piar a significai e». Quante improvise gare e contese, quante risse son nate a torto per simil cagione fra gli amici nel discorrere insieme? Quante allegorie hanno trovate gli spositori in Omero, in Virgilio ed in altri, le quali mai dagli autori non furono imaginate? Quante cose sono state fatte dire al Petrarca, le quali egli mai non disse? Perciò quel bello spirito beneventano fínse ne’ suoi dialoghi esso poeta essere in Parnaso attaccato alla corda da’ grammatici, i quali per forza di tormento gli facevano dir ciò che volevano.