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idilli pastorali 123


     Talor, lasciando i cupi fondi algenti,
al suon de le mie note esce de l’onde,
e, d’udir vaga i miei dogliosi accenti,
da me non lunge, e per mirar, s’asconde;
e fiamme prova entro l’umor sí ardenti,
ch’io l’odo sospirar tra fronde e fronde,
e con l’acque del pianto, ond’ella mesce
l’acque del fonte, il proprio fonte accresce.
 
     Vorrei lodar la mia selvaggia musa,
che forse agguaglia ogni altra cetra antica;
ma modestia mi tien la bocca chiusa,
la qual non vuol che di me stesso io dica.
Pur, qualunque si sia, tacer confusa
fatt’ha, cantando, una novella Pica,
e restar di Lambrusco in tutto muta
la temeraria e stridula cicuta.
 
     Lambrusco, dico, l’invido capraio,
di cui con tutto ciò rider conviemme,
ch’uscito fuor del suo natio pagliaio,
vòlse passar ne l’indiche maremme,
sperando accumular molto danaio
e trarne un gran tesor d’oro e di gemme;
ma poi, di gemme invece e ’nvece d’oro,
fu vil piombo e vil fango il suo tesoro.

     Se ’l mio canto il suo canto in prova vinse,
ne fu giudice Alcippo, il saggio vecchio,
che ’n fronte allor baciommi, in sen mi strinse,
e pur di chiaro senno è vivo specchio.
Questi, poiché d’alloro il crin mi cinse,
cosí pian pian mi disse entro l’orecchio:
— Quanto a l’alto cipresso il giunco umíle,
tanto l’emulo tuo cede al tuo stile. —