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idilli mitologici 193

Ne la piú alta e ruinosa cima
de lo scoglio scosceso, onde gran tratto
può su per l’onde spaziose ed ampie
allungar la veduta, in fretta sale:
e quindi vede, o di veder le sembra
(ch’è l’aria ancor tra luminosa e fosca)
con veloce discorso a vele tese
il legno ingannator volar per l’alto.
— Teseo, Teseo! — iterando, alza lo strido,
e, perché lena d’arrivar tant’oltre
la voce stanca e debile non have,
co’ panni accenna e con la man da lunge.
Ma poco val, ché la fugace prua
con sí rapida fuga i flutti taglia,
che fa dagli occhi suoi sparir l’antenne.
Quindi, occupata dal soverchio affanno,
cade in angoscia e, languida ed essangue,
s’abbandona e tramòre. Alfin si leva,
e, di nuovo impaziente, a la marina
scende anelando, al padiglion ritorna,
e de l’ingiusto talamo si lagna,
che, de l’ospizio suo rotta la fede,
quel che dianzi ebbe intero, or rende scemo.
Indi dolente e disdegnosa in guisa
che fa dolce il dolor, bello lo sdegno,
fin dal fondo del cor traendo a forza,
da largo pianto accompagnati, e tronchi
da ferventi sospir, spessi singulti,
consuma i gridi inutilmente, e perde,
parlando al sordo mar, questi lamenti:
               Misera! e chi m’ha tolto
               il mio dolce compagno?
               Lassa! perché quel bene,
               ch’Espero mi concesse,
               Lucifero mi fura?
               Perché, quanto cortese

G. B. Marino, Poesie varie. 13