Pagina:Mastriani - La cieca di Sorrento 1.djvu/165

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Non possiamo tenerci dalla tentazione di dare a’ nostri lettori qualche passo di questa bizzarra miscellanea, ingenua creazione di un’anima vergine e solitaria. Sono pensieri staccati, ricordi gettati alla rinfusa, immagini tolte ad un universo nuovo per tutti gli altri, sentimenti malinconici e teneri, ispirazioni celesti ignote a sè medesime. Apriamo a caso il manoscritto, in diverse pagine, e alla rimescolata:

«Ne’ miei giorni di tristezza, quando mi è grave la stessa compagnia di Geltrude, quando mi pesa finanche il camminare nella mia camera, quando mi piglia la malinconia... e veggo sorgere... là... in fondo in fondo del mio cervello... pensieri opprimenti e tetri; ... allorchè queste tenebre che mi circondano mi pesano come un lenzuolo di morte; ... allorchè di ogni umano conforto è privo il mio cuore, ben sovente un semplice tocco fuggitivo della campana della contigua parrocchia, una sbadata oscillazione del sacro bronzo, sono bastanti a ridonarmi la tranquillità e la gioia. Ed un brivido mi prende di dolce ebbrezza, che per tutte le fibre mi scorre, una indicibile commozione che da’ morti occhi miei tragge una lagrima; imperocchè, in quel fremito vago, fantastico e lontano, io trovo un incanto

    remo lo scrittor Brandolini, anche cieco dall’infanzia, il quale in un sonetto indirizzato a Lorenzo de’ Medici dicea:

         «Riguarda alla mia cicca adolescenza,
         «Che in tenebrosa vita piango e scrivo,
         «Com’uom, che per via luce l’abbandona.