Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/339

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dal portone sconquassato. La corte era angusta, ingombra di sassi e di macerie. Si arrivava per un sentieruolo fra le ortiche allo scalone sdentato, barcollante, soffocato anch’esso dalle erbacce. In cima l’uscio cadente era appena chiuso da un saliscendi arrugginito; e subito nell’entrare colpiva una zaffata d’aria umida e greve, un tanfo di muffa e di cantina che saliva dal pavimento istoriato col blasone, seminato di cocci e di rottami, pioveva dalla vòlta scalcinata, veniva densa dal corridoio nero al pari di un sotterraneo, dalle sale buie che s’intravedevano in lunga fila, abbandonate e nude, per le strisce di luce che trapelavano dalle finestre sgangherate. In fondo era la cameretta dello zio, sordida, affumicata, col soffitto sconnesso e cadente, e l’ombra di don Ferdinando che andava e veniva silenzioso, simile a un fantasma.

— Chi è?... Grazia... entra...

Don Ferdinando apparve sulla soglia, in maniche di camicia, giallo ed allampanato, guardando stupefatto attraverso gli occhiali la sorella e la nipote. Sul lettuccio disfatto c’era ancora la vecchia palandrana di don Diego che stava rattoppando. L’avvolse in fretta, insieme a un fagotto d’altri cenci, e la cacciò nel cassettone.

— Ah!... sei tu, Bianca?... che vuoi?...

Indi accorgendosi che teneva ancora l’ago in mano, se lo mise in tasca, vergognoso, sempre con quel gesto che sembrava meccanico.