Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/364

Da Wikisource.

— 356 —

protezioni già non gli mancavano. — Certo, certo, — continuava a ripetere don Gesualdo. Ma non si impegnava più oltre. Si dava da fare a rimettere le seggiole a posto, a chiudere le finestre, come a dire: — Adesso andate via. — Però siccome il giovane voltava le spalle senza rispondere, con la superbia che avevano tutti quei parenti spiantati, donna Sarina non seppe più frenarsi, raccattando in furia i ferri da calza e gli occhiali, infilando il paniere al braccio senza salutar nessuno.

— Guardate s’è questa la maniera! Così si ringraziano i parenti della premura? Io me ne lavo le mani.... come Pilato.... Ciascuno a casa sua....

— Ecco la parola giusta, donna Sarina. Ciascuno a casa sua. Aspettate, che vi accompagno... Eh? eh? che c’è?

Da un pezzo, mentre discorreva, tendeva l’orecchio all’abbaiare dei cani, al diavolìo che facevano oche e tacchini nella corte, a un correre a precipizio. Poi si udì una voce sconosciuta in mezzo al chiacchierìo della sua gente. Dal cancello s’affacciò il camparo, stralunato, facendogli dei segni.

— Vengo, vengo, aspettate un momento.

Tornò poco dopo che sembrava un altro, stravolto, col cappello di paglia buttato all’indietro, asciugandosi il sudore. Donna Sarina voleva sapere a ogni costo cosa fosse avvenuto, fingendo d’aver paura.