Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/446

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Don Camillo si strinse nelle spalle.

— Scusate, don Gesualdo. Io fo l’ufficio mio. Perchè vi siete guastato col canonico Lupi?... Per l’appalto dello stradone!... per una cosa da nulla... Quello è un servo di Dio che bisogna tenerselo amico... Ora soffia nel fuoco coi vostri parenti... Non voglio dir male di nessuno; ma vi darà da fare, caro don Gesualdo!

E don Gesualdo stava zitto; curvava le spalle adesso che ciascuno gli diceva la sua, e chi poteva gli tirava la sassata. Come sapevasi che sua moglie stava peggio, il marchese Limòli era venuto a visitare la nipote, e ci aveva condotto pure don Ferdinando, tutti e due a braccetto, sorreggendosi a vicenda. — La morte e l’ignorante, — osservavano quanti li incontravano a quell’ora per le strade, col fermento che c’era nel paese; e si facevano la croce vedendo ancora al mondo don Ferdinando, con quella palandrana che non teneva più insieme. I due vecchi s’erano messi a sedere dinanzi al letto, col mento sul bastone, mentre don Gesualdo faceva la storia della malattia, e il cognato gli voltava la schiena senza dir nulla, rivolto alla sorella, la quale guardava or questo ed ora quell’altro, poveretta, con quegli occhi che volevano far festa a tutti quanti, allorchè s’udì un vocìo per la strada, gente che correva strillando, quasi fosse scoppiata la rivoluzione che s’aspettava. Tutt’a un