Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/476

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folla, che andava ingrossando sempre al par di un fiume.

Udivasi un gridìo immenso, degli urli che nel buio e nella confusione suonavano minacciosi. Don Niccolino Margarone, Zacco, Mommino Neri, tutti i bene intenzionati, si sgolavano a chiamare "fuori i lumi!" per vederci chiaro, e che non nascessero dei guai.

La folla durò un pezzo a vociare di qua e di là. Indi si rovesciò come un torrente giù per la via di San Giovanni. Dinanzi all’osteria di Pecu-Pecu c’era un panchettino con dei tegami di roba fritta che andò a catafascio — petronciani e pomidoro sotto i piedi. Santo Motta, che stava lì di casa e bottega, strillava come un ossesso, vedendo andare a male tutta quella roba.

— Bestie! animali! Che non ne mangiate grazia di Dio? — Quasi pestavano anche lui, nella furia. Giacalone e i più infervorati proposero di sfondar l’uscio della chiesa e portare il santo in processione, per far più colpo. — Sì e no. — Bestemmie e sorgozzoni, lì all’oscuro, sul sagrato. Mastro Cosimo intanto s’era arrampicato sul campanile e suonava a distesa. Le grida e lo scampanìo giungevano sino all’Alìa, sino a Monte Lauro, come delle folate di uragano. Dei lumi si vedevano correre nel paese alto, — un finimondo. A un tratto, quasi fosse corsa una parola d’ordine, la folla s’avviò tumultuando verso il Fosso, dietro coloro che sembravano i caporioni.