Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/489

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Mèndola s’era messo di buon umore, mentre preparavano la stanza. Frugava da per tutto. Andava a cacciare il naso nell’andito oscuro, dietro l’usciolino. Trovava delle barzellette, ricordando le vecchie storie. Quanti casi! Quante vicende! — Chi ve lo avrebbe detto, eh, don Gesualdo? — Lo stesso canonico Lupi si lasciò sfuggire un sorrisetto.

— Intanto che siete qui, potete fare le vostre meditazioni sulla vita e sulla morte, per passare il tempo. Che commedia, questo mondaccio! Vanitas vanitatum!

Don Gesualdo gli rivolse un’occhiata nera, ma non rispose. Ci aveva ancora dello stomaco per chiudervi dentro i suoi guai e le sue disgrazie, senza farne parte agli amici, per divertirli. Si buttò a giacere sul letto, e rimase solo al buio coi suoi malanni, soffocando i lamenti, mandando giù le amarezze che ogni ricordo gli faceva salire alla gola. D’una cosa sola non si dava pace, che avrebbe potuto crepare lì dove era, senza che sua figlia ne sapesse nulla. Allora, nella febbre, gli passavano dinanzi agli occhi torbidi Bianca, Diodata, mastro Nunzio, degli altri ancora, un altro sè stesso che affaticavasi e s’arrabattava al sole e al vento, tutti col viso arcigno, che gli sputavano in faccia: — Bestia! bestia! Che hai fatto? Ben ti stia!

A giorno tornò Grazia per aiutare un po', sfinita,

Mastro-don Gesualdo. 31