Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/501

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ponendo in volto, alla vista di quelle facce serie, al torcer dei musi, alla lunga cicalata del mediconzolo che sembrava recitasse l’orazione funebre. Dopo che colui ebbe terminato di ciarlare s’alzarono l’uno dopo l’altro, e tornarono a palpare e a interrogare il malato, scrollando il capo, con certo ammiccare sentenzioso, certe occhiate fra di loro che vi mozzavano il fiato addirittura. Ce n’era uno specialmente, dei forestieri, che stava accigliato e pensieroso, e faceva a ogni momento uhm! uhm! senza aprir bocca. I parenti, la gente di casa, dei vicini anche, per curiosità, si affollavano all’uscio, aspettando la sentenza, mentre i dottori confabulavano a bassa voce fra di loro in un canto. A un cenno dello speziale, Burgio e sua moglie andarono a sentire anch’essi, in punta di piedi.

— Parlate, signori miei! — esclamò allora il pover’uomo pallido come un morto. — Sono io il malato, infine! Voglio sapere a che punto sono.

Il Muscio abbozzò un sorriso che lo fece più brutto. E don Vincenzo Capra, in bel modo, cominciò a spiegare la diagnosi della malattia: Pylori cancer, il pyrosis dei greci. Non s’avevano ancora indizii d’ulcerazione; l’adesione stessa del tumore agli organi essenziali non era certa; ma la degenerescenza dei tessuti accusavasi già per diversi sintomi patologici. Don Gesualdo, dopo avere ascoltato attentamente, riprese:

— Tutto questo va benone. Però ditemi se potete