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Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/504

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ne aveva e aveva il cuoio duro anche. Mangiava e beveva; si ostinava a star meglio; si alzava dal letto due o tre ore al giorno; si trascinava per le stanze, da un mobile all’altro. Infine si fece portare a Mangalavite, col fiato ai denti, mastro Nardo da un lato e Masi dall’altro che lo reggevano sul mulo — un viaggio che durò tre ore, e gli fece dire cento volte: — Buttatemi nel fosso, ch’è meglio.

Ma laggiù, dinanzi alla sua roba, si persuase che era finita davvero, che ogni speranza per lui era perduta, al vedere che di nulla gliene importava, oramai. La vigna metteva già le foglie, i seminati erano alti, gli ulivi in fiore, i sommacchi verdi, e su ogni cosa stendevasi una nebbia, una tristezza, un velo nero. La stessa casina, colle finestre chiuse, la terrazza dove Bianca e la figliuola solevano mettersi a lavorare, il viale deserto, fin la sua gente di campagna che temeva di seccarlo e se ne stava alla larga, lì nel cortile o sotto la tettoia, ogni cosa gli stringeva il cuore; ogni cosa gli diceva: Che fai? che vuoi? La sua stessa roba, lì, i piccioni che roteavano a stormi sul suo capo, le oche e i tacchini che schiamazzavano dinanzi a lui... Si udivano delle voci e delle cantilene di villani che lavoravano. Per la viottola di Licodia, in fondo, passava della gente a piedi e a cavallo. Il mondo andava ancora pel suo verso, mentre non c’era più speranza per lui, roso dal baco al pari di una mela fradicia