Pagina:Melloni - Relazione intorno al dagherrotipo, Napoli, 1839.djvu/15

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la lucentezza dell’argento s’appanna sempre alcun poco per l’esposizione all’aria, convien ravvivarla, al momento dell’operazione, con alcuni fiocchetti di bambagia, i quali s’intridono in una poltiglia d’olio d’olive e di finissima polvere di pomice, o di tripoli, e s’adoperan poscia asciutti ed alquanto cospersi delle stesse polveri: lo strofinio deve essere condotto, prima circolarmente, quindi in direzione rettilinea e trasversale. Fornita questa specie di brunitura, la lamina vien fortemente riscaldata dal lato del rame colla fiamma di una lucerna alcoolica, e quindi posta a contatto di una tavola di marmo che ne abbassa prontamente la temperatura: allora s’imprende di nuovo a ripulirla col cotone e l’acido nitrico diluito in sedici parti d’acqua. Questo secondo stropicciamento è diretto a togliere quelle poche particelle di rame, di ferro, o di materia vegetabile, che potrebbero rimanere tuttora aderenti alla superficie dell’argento. La piastra sgombrata per tal guisa da ogni sostanza eterogenea, e perfettamente forbita, riceve una cornice di metallo, ed è quindi introdotta, col lato dell’argento volto in giù, entro una cassettina di legno, nel cui fondo sta riposto un pò d’iodio e, ad una certa distanza, un finissimo velo che ne abbraccia tutta l’ampiezza a guisa di diaframma.

Chiuse le finestre, si abbandona l’esperienza a sè medesima: l’iodio ridotto in vapori dal calor naturale diffuso per l’ambiente attraversa il velo, giugne a contatto della lamina, e vi si ferma in gran parte per l’affinità del metallo, che lo assorbisce e lo converte in uno strato solido, la cui profondità, quantunque affatto insensibile all’occhio, va faccendosi gradatamente maggiore: l’operazione deve sospendersi dopo quindici, o venti minuti, o più esattamente, quando l’ar-