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174 arco traiano

adunque, in questo monumento e sotto la direzione di Apollodoro, greco ancora egli, essi dovettero però armonizzare la linea ellenica alla composizione romana. Ne uscì dai loro scalpelli questo capolavoro che stiamo ancor ammirando.

Quattro figure avanzano di questo quadro, disposte in due piani, Diana nel maggior rilievo, Silvano, Cerere e Bacco nell’altro piano.

Diana, che va nel novero delle dee silvestri, detta artemis dai greci per la sua costante pudicizia, cui si volle consacrare1, figlia di Giove e di Latona e sorella di Apollo, è qui scolpita nelle sembianze sue più consuete e nelle vesti più proprie; di corpo snello, con l’abito corto, adatto per la caccia e con la faretra, siccome la descrive Ovidio:

Talia succinctae pinguntur crura Dianae,
Cum sequitur fortes fortior ipsa feras.

Porta una specie di tunica stretta alla vita dal cingolo del pudore e rovesciata sulle anche, donde poi la gonna scende sino al di sopra dei ginocchi. È la veste che ella chiede al padre Giove:

«Cingermi corte vergate gonnelle2»

Ha la manica, a mezzo braccio, lavorata a riprese con bottoncini, come la figura muliebre del quadro XVIII. Una cintura, passandole a tracollo dall’omero destro, sostiene una faretra cilindrica con orlo rilevato e coperchio emisferico sormontato da pometto. Ha nude le gambe, ed ai piedi porta alti coturni di pelle con testa di animale sull’alto del gambale. Porta la chioma semplicissima su di un volto assai gentile ed ingenuo, ed ha le poppe verginee, non molto pronunziate, coverte con pudicizia. Avendo gli antibracci mancanti, non sappiamo che cosa ella reggeva con le mani. Pare che stendeva la mano destra verso la figura principale perduta; e forse con la sinistra reggeva l’arco,

  1. Pantheum Mythicum, op. cit. pag. 209.
  2. Callimaco, Inno a Diana, traduzione di Dionigi Strocchi. Barbera, ediz. diamante, 1869.