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atto secondo | 191 |
Arbace. Dunque il servirti
è demerito in me? Cosí geloso
eseguisco e nascondo un tuo comando;
e tu...
Marzia. Ma fino a quando
la noia ho da soffrir di questi tuoi
rimproveri importuni? Io ti disciolgo
d’ogni promessa; in libertá ti pongo
di far quanto a te piace.
Di’ ciò che vuoi, purché mi lasci in pace.
Arbace. E acconsenti ch’io possa
libero favellar?
Marzia. Tutto acconsento,
purché le tue querele
piú non abbia a soffrir.
Arbace. Marzia crudele!
Marzia. Chi a tollerar ti sforza
questa mia crudeltá? Di che ti lagni?
Perché non cerchi altrove
chi pietosa t’accolga? Io tel consiglio.
Vanne; il tuo merto è grande, e mille in seno
amabili sembianze Africa aduna:
contenderanno a gara
l’acquisto del tuo cor. Di me ti scorda:
ti vendica cosí.
Arbace. Giusto saria;
ma chi tutto può far quel che desia?
So che pietá non hai,
e pur ti deggio amar,
dove apprendesti mai
l’arte d’innamorar,
quando m’offendi?
Se compatir non sai,
se amor non vive in te,
perché, crudel, perché
così m’accendi? (parte)