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238 iii - catone in utica


Fulvio. Che fu?
Cesare.  Che ascolto!
Marzia. (a Cesare) Ah, quale oggetto! Ingrato!
Va’, se di sangue hai sete, estinto mira
l’infelice Catone. Eccelsi frutti
del tuo valor son questi. Il men dell’opra
ti resta ancor. Via! quell’acciaro impugna,
e in faccia a queste squadre
la disperata figlia unisci al padre. (piange)
Cesare. Ma come?... per qual mano?
Si trovi l’uccisor.
Emilia.  Lo cerchi invano.
Marzia. Volontario morí. Catone oppresso
rimase, è ver, ma da Catone istesso.
Cesare. Roma, chi perdi!
Emilia.  Roma
il suo vindice avrá. Palpita ancora
la grand’alma di Bruto in qualche petto.
Cesare. Emilia, io giuro ai numi...
Emilia.  I numi avranno
cura di vendicarci. Assai lontano
forse il colpo non è. Per pace altrui
l’affretti il cielo; e quella man, che meno
credi infedel, quella ti squarci il seno. (parte)
Cesare. Tu, Marzia, almen rammenta...
Marzia.  Io mi rammento
che son per te d’ogni speranza priva,
orfana, desolata e fuggitiva.
Mi rammento che al padre
giurai d’odiarti; e, per maggior tormento,
che un ingrato adorai pur mi rammento. (parte)
Cesare. Quanto perdo in un dí!
Fulvio.  Quando trionfi,
ogni perdita è lieve.
Cesare. Ah! se costar mi deve
i giorni di Catone il serto, il trono,
ripigliatevi, o numi, il vostro dono. (getta il lauro)