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atto terzo | 51 |
SCENA VIII
Reggia con veduta della cittá di Cartagine in prospetto, che poi s’incendia.
Didone e poi Osmida.
Didone. Va crescendo
il mio tormento;
io lo sento
e non l’intendo:
giusti dèi, che mai sará!
Osmida. Deh, regina, pietá!
Didone. Che rechi, amico?
Osmida. Ah no, cosí bel nome
non merta un traditore,
d’Enea, di te nemico e del tuo amore.
Didone. Come!
Osmida. Con la speranza
di posseder Cartago,
m’offersi a Iarba: ei m’accettò; si valse
finor di me; poi per mercé volea
l’empio svenarmi, e mi difese Enea.
Didone. Reo di tanto delitto, hai fronte ancora
di presentarti a me?
Osmida. (s’inginocchia) Sí, mia regina,
tu vedi un infelice,
che non spera il perdono e nol desia:
chiedo a te per pietá la pena mia.
Didone. Sorgi. Quante sventure!
Misera me, sotto qual astro io nacqui!
Manca ne’ miei piú fidi...