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276 xv - ciro riconosciuto


partorito in quel dí. Proposi il cambio:

piacque. Te per mio figlio
sotto nome d’Alceo serbo, ed espongo
l’estinto in vece tua.
Ciro.   Dunque...
Mitridate.   Non vuoi
ch’io siegua? Addio.
Ciro.   Sí, sí, perdona.
Mitridate.   Il cenno
credé compiuto il re. Pensovvi, e, sciolto
dal suo timor, vide il suo fallo, intese
del sangue i moti, e fra i rimorsi suoi
pace piú non avea. Quasi tre lustri
Arpago tacque. Alfin stimò costante
d’Astiage il pentimento; e te gli parve
tempo di palesar. Pur, come saggio,
prima il guado tentò. Desta una voce
s’era in que’ dí che Ciro
fra gli sciti vivea; ch’altri in un bosco
lo raccolse bambino. O sparso fosse
dall’impostor quel grido, o che dal grido
nascesse l’impostor, vi fu l’audace
che il tuo nome usurpò.
Ciro.   Sará quel Ciro
che vien...
Mitridate.   Quello. T’accheta. Al re la fola
Arpago accreditò, dentro al suo core
ragionando in tal guisa: — O il re ne gode,
ed io potrò sicuro
il suo Ciro scoprirgli; o il re si sdegna,
e i suoi sdegni cadranno
sopra dell’impostor. —
Ciro.   Ma, giá che tanto
tenero Astiage è del nipote e vuole
oggi stringerlo al sen, perché si tace
il vero a lui?