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118 xvii - zenobia


Tiridate.   Avrei

saputo rimaner di vita privo.
Zenobia. Io feci piú: t’ho abbandonato, e vivo.
Non giovava la morte
che a far breve il mio duol: te ucciso avrei,
disubbidito il padre.
Tiridate.   I nuovi lacci
però non ti son gravi: assai t’affanni
per salvar Radamisto. Egli ha saputo
lusingare il tuo cor. Fu falso, il vedo,
che svenarti ei tentò.
Zenobia.   Fu ver; ma questo
non basta a render gravi i miei legami.
Tiridate. Non basta?
Zenobia.   No.
Tiridate.   Tentò svenarti, e l’ami?
E l’ami a questo segno,
che m’offri per salvarlo in prezzo un regno?
Zenobia. Sí, Tiridate; e, s’io facessi meno,
tradirei la mia gloria,
l’onor degli avi miei,
l’obbligo di consorte, i santi numi
che fûr presenti all’imeneo, te stesso,
te, prence, io tradirei. Dove sarebbe
quell’anima innocente,
quel puro cor che in me ti piacque? Indegna,
dimmi, allor non sarei d’averti amato?
Tiridate. Quanta, ahi quanta virtú m’invola il fato!
Zenobia. Deh! s’è pur ver che nasca
da somiglianza amor, perché combatti
col tuo dolor questa virtú? L’imita,
la supera, signor: tu il puoi; conosco
dell’alma tua tutto il valor. Lasciamo
le vie de’ vili amanti. Emula accenda
fiamma di gloria i nostri petti. Un vero
contento avrem nel rammentar di quanto