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Famiglia che spalleggia un sentieruolo
Divisato a meandri, e che serpeggia
Tutto attorno fin sopra a un monticello.
E v’è il Mandorlo dai cui nudi rami
Ci fingono i poeti penzolante
Di re Licurgo Fillide la figlia.
V’è il Prugno o sia Susin, che in varie fiate
Il nomade nocchier fra le tempeste
Recò in Ausonia; il Prugno Damasceno
E quel che è oriundo già del clima Ispano.
V’è l’Appio Melo, cui non so se detto
Fosse da l’api oppur da l’Appia gente,
Neve a vederlo e come il miele dolce.
V’è quello ancor che con onesta voce
Fu detto Melo-rosa, il fausto frutto
Cui diero a Italia i Decii tunicati.
V’è pur la profumata Bergamotta
Quale è già fama traducesse a Roma
Ad istrumento de le sue delizie,
Attalo ai Quiriti tanto amico.
Non mancavi il Ciliegio dolce-amaro
Che, in mezzo alle ire de’ pescosi flutti,
Recò Lucullo il vincitor del Ponto.
Poco più oltre, è il Celso babilonico
Tanto prezioso per le sue frondi, e tanto
Per le sue bacche saporite, grato,
Quando l’estate cogli ardenti soli,
E il Sirio Cane inaridisce i campi.
Felice ancor v’alligna il Melo-Pesco
Di Persia, faretrata un dì, venuto,
Che porta i frutti d’or di sangue intrisi.
E questo è quel che il milite romano