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grandi palloni-drago. Qualche colpo dei loro fa cilecca. Specie i grossi calibri.

Passano in alto, lentamente, quasi ansimando e gemendo i grossissimi proiettili che vanno molto lontano. Io, tutto solo, fuori della mia tana — a mio rischio e pericolo — mi godo lo spettacolo auditivo e visivo. Rombo di un velivolo nostro che fila verso Gorizia. Dal Golfo di Panzano s’addensano nuove nubi temporalesche. Finché dura lo scirocco non farà bel tempo. Crepuscolo tranquillo. Sono andato a trovare un amico tenente, romano, che ora comanda una sezione di mitragliatrici. Non lo vedevo più dal Rombon. Egli mi ha narrato che i disertori austriaci hanno manifestalo tutti un sacro terrore dell’artiglieria italiana. Molti di loro venivano dalla Galizia.

— Là, è un paradiso a paragone del Carso — dicono. — L’artiglieria russa fa pum-pum-pum a lunghi intervalli, ma non fa il fuoco a tamburo come l’italiana. —

Il rancio giunge alla sera. È l’unica distribuzione dei viveri in 24 ore. La razione è ridotta. L’appetito è sempre quello. Serata movimentata. Verso le nove, un attacco nemico si è delineato alla nostra sinistra, su quota 208. Dopo un vivo fuoco di fucileria, sono entrati in azione i nostri piccoli calibri. Sono uscito dal ricovero per vedere di che si trattava. Un nostro proiettore illuminava la selletta fra la quota 208 e la nostra. Tutto il costone era punteggiato dallo scoppio ininterrotto dei nostri shrapnels e delle nostre granate. Il tambureggiare violento era di quando in quan-