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quistarlo e di gettare in basso — dall’altra parie — gli austriaci. La compagnia era comandata da Umberto Villani. Un audace. Un uomo che non sapeva nè ridere, nè sorridere. Scoccata l’ora, mezzogiorno e dieci, il Villani si lanciò all’assalto fra i primissimi, alla testa del «plotone d’onore» che egli aveva costituito fra i migliori elementi della compagnia. Appena iniziato il combattimento, il Villani — che stava ritto in piedi per ordinare la disposizione delle squadre che avanzavano — fu ferito da una fucilata. Non se ne curò. Di lì a pochi minuti, fu abbattuto dallo scoppio di una bomba. Ebbe appena il tempo di gridare:

— Bersaglieri della settima, avanti! A destra! Stendetevi a destra! Viva l’Italia! —

E’ morto. Allora il comando della compagnia fu assunto dal sottotenente milanese Giraud. In piedi, anche lui, ferito anche lui, non però gravemente, incurante del pericolo e della morte, diresse la furiosissima battaglia, che durò venti ore. Esaurite le bombe, si ebbe un a corpo a corpo micidiale e indescrivibile. Ma l’azione fu coronata da successo. Gli austriaci furono rigettati dall’altra parte del cocuzzolo. Molti cadaveri nei burroni.

— Mi piacerebbe di averti nella settima compagnia — mi dice Giraud.

Tenente Cauda, dei carabinieri, venuto a combattere volontario. E un sardo. Coraggio e sangue freddo eccezionali. Parla lento, all’inglese. Tenente Corbelli, romagnolo, di Russi.

Una voce:

— C’è qui il bersagliere Mussolini?