Pagina:Neera - Il romanzo della fortuna.djvu/226

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nostri padroni: noi diamo a loro le nostre forze, la nostra gioventù, il nostro sangue. Ed essi che cosa ci danno?

— Due e cinquanta al giorno! — interruppe l’operaio che non aveva mai potuto prendere di più.

L’amarezza colla quale egli pronunciò tali parole prese gli altri a guisa di contagio.

— Io — disse il bilioso — cominciai con cinquanta centesimi ed avevo mia madre a casa con quattro marmocchi minori di me... e il padre in galera, per una inezia, per l’odio che hanno verso la povera gente. Cinquanta centesimi al giorno in sei! Nemmeno dieci centesimi a testa!... E vogliono che si lavori. E proibiscono l’accattonaggio. E mettono in galera se spinti dalla fame, si scassina qualche mobile. Walter, quando la fate questa legge per la povera gente?

— Sì, una legge, una legge! — urlarono in coro.

Tutti divennero giustizieri. Si sentivano tanto alti, tanto migliori della loro sorte che a dettare una legge vi si provò ciascuno: anzi ne dettarono parecchie. Solo le ragazze non vi presero parte, un po’ assonnate, arrotolando macchinalmente colle dita i loro toupets che avevano perduta l’arricciatura.