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Beniamino. 209


L’alba del domani, diffondendosi bianca e vaporosa sulle guglie del Duomo illuminò l’entrata di Beniamino nella capitale lombarda.

Che egli provasse o no quel senso di meraviglia naturale in tutti i campagnoli che si recano per la prima volta a Milano, la cronaca non dice.

Certo è che la sua fisonomia aperta e serena non mostrava ombra alcuna di titubanza: aveva la sua faccia solita, cioè: fronte un po’ stretta e fuggente, capelli irti piantati alla Bruto; occhi grigi, lucenti, adombrati in modo singolare di ingenuità e di malizia, naso camuso, bocca larghissima e bonaria, orecchie lunghe foggiate a padiglione, lineamenti mobilissimi, espressione cangiante su fondo perenne di giovialità.

Aveva scritta la sua origine bergamasca dalla punta dei capelli (e se mai capelli ebbero punta furono proprio quelli di Beniamino) ai chiodi delle sue scarpe (e se mai scarpe ebbero chiodi... capite quello che voglio dire).

Canticchiava un’arietta sbirciando tutte le botteghe di salumaio che gli sfilavano davanti.

Sua madre, buon’anima, gli aveva stampato in mente che i genitori di Robertino tenevano bottega su una certa piazza, vicino a una certa chiesa — un gradino, due vetrine, quattro barili di acciughe in sale, una ghirlanda di salsicciotti e sei limoni dietro i vetri completavano la descrizione.

Beniamino osservò con leggera inquietudine, che

     Neera, Novelle gaje. 14