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12 | Novelle gaje. |
tero per tempo alla mia culla, spargendomi negli occhi polvere d’oro.
Non v’era parete a me d’intorno che non ricordasse o in stemmi o in ritratti le alte gesta dei Gallieri degli Omodei.
Rimasto orfano prima di uscire dalle fasce, una zia materna venne a istallarsi presso a me, assumendo la responsabilità della mia educazione. Per diciotto lunghissimi anni io non vidi altra donna che lei; potete immaginarvi se ebbi tempo di esaminarla! Ora permettete che ve la presenti.
La marchesa Atenaide di Vavaroux, Monte, Rocca, Picco e Torre apparteneva alla vecchia aristocrazia piemontese e non era senza un po’ di degnazione che dichiaravasi parente dei Gallieri degli Omodei, quantunque rimontando l’albero genealogico della mia famiglia non vi incontrasse alcuna macchia plebea; ma credo vi fosse qualche anno di meno nell’anzianità.
Maritata giovanissima a un gran signore russo, un boiardo che la chiuse sùbito ne’ suoi castelli sulle rive inospitali della Dwina, ella languì otto anni; nobile fiore d’Italia fra i servi della gleba (come diceva un madrigale relativo a quell’epoca). Nel Canavese tutti la credevano morta, quand’ecco invece di lei morì il boiardo e la vedovella scuotendo le ali dopo così lungo servaggio ritornò in patria cinta dall’aureola interessante del martirio. I suoi dolori, i sacrifici, le abnegazioni, le virtù incomprese o da comprendere le arrecarono una fama che nel devoto Piemonte salì quasi alla canonizzazione. Molti proseliti della beata Francesca di Chantal disertarono in favore di mia zia; ella