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Zia Severina 53


citi, calze rinfrinzellate. Non tutti i giorni si lavava la faccia.

Così, aspettando la bellezza e l’amore, era passata accanto alle realtà della vita senza avvertirle, sognando sempre. Sognava quando, al mattino, gettando indietro la coperta di filugello e balzando leggera sopra un rettangolino formato con pezzetti di panno cuciti insieme, ella pensava all’Aurora di Guido Reni, volante sopra le nubi nell’irradiamento del sol nascente; e cingeva sui magri fianchi la gonnella, con una visione di ninfe discinte davanti agli occhi.

In chiesa, perduta nella contemplazione di un bel torso di fanciulla ebrea, Ruth o Noemi, non si accorgeva di restare appesa colle scapole sulla spalliera della sedia, finchè un burlone gliele urtava, facendo lo gnorri, col pomo della mazza; ed ella allora arrossiva tutta per la vergogna e il dispetto.

Gli anni intanto passavano, la bellezza non veniva e l’amore nemmeno — quell’amore che aveva creato tanti capolavori; le madonne di Raffaello, alcuni ritratti di Van Dyck, il Bacio di Hayez — bellezza e amore, i sommi dei dell’Olimpo pagano, del suo proprio Olimpo.

In casa del fratello, che faceva l’agrimensore ed aveva venduto tutti gli attrezzi artistici del babbo, Severina non trovava più i pepli, nè si arrischiava colla cognata in casacca di flanella e grembiule impermeabile, a intrecciare ne’ suoi capelli le corone delle baccanti.

Presto poi i bimbi, attaccandosi alle sottane di zia Severina, si fecero imboccare la pappa, ritagliare gli omini di carta, pulire il naso, e in mezzo a queste faccenduole, domestiche sì, ma punto artistiche, la zitellona si inacerbiva, perdendo di vista i suoi ideali e inalberando quella