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50 capitolo quinto


«subiettività», nel senso inteso dagli esteti moderni, è un abbaglio. Quando Archiloco, il primo lirico greco, manifesta il suo folle amore e, insieme, il suo sdegno per le figlie di Licambo, non punto la sua passione impazza davanti a noi in vertigine orgiastica: noi vediamo, invece, Dioniso e le menadi, e vediamo l’ebbro tripudiatore Archiloco cascato giù nel sonno; nel sonno quale ce lo descrive Euripide nelle Baccanti, quello che piglia in cima alle montagne in pieno sole di mezzodì; e Apollo gli si avvicina e lo tocca con l’alloro. E l’incantesimo dionisiaco-rausicale del dormente sprizza, per così dire, d’intorno in scintille d’immagini, in poemi lirici, che nel loro massimo svolgimento si chiamano poi tragedie e ditirambi drammatici.

L’artista plastico, e con lui il poeta a lui affine, l’epico, è immerso nella intuizione pura delle immagini. Invece il musico dionisiaco non vede alcuna immagine; egli è completamente e unicamente lo stesso dolore primordiale ed echeggio di quel dolore. Il genio lirico sente sorgere dalla propria abnegazione mistica e dalla propria identificazione con l’uno primigenio un mondo d’immagini e di simboli, che ha un colorito, una causalità e una rapidità di movimento affatto diversi dal mondo dell’artista plastico e del poeta epico. Laddove quest’ultimo vive con dilettoso compiacimento in coteste immagini ed unicamente in esse, e non si sazia di contemplarle amorosamente fino ai lineamenti più impercettibili; laddove perfino l’immagine dell’irato Achille non