Pagina:Nodier - Racconti Fantastici, 1890.djvu/83

Da Wikisource.

di Larissa che si divertono colle teste da morto, essa s’era attaccata ad una tavola sporgente, mordendola coi denti di ferro che la rabbia dà all’agonia. Di là io girava gli occhi verso l’assemblea che si ritirava silenziosa ma soddisfatta. Un uomo era morto davanti al popolo. Tutto passò nell’esprimere un sentimento d’ammirazione per colui che non m’aveva sbagliato e un sentimento d’orrore per l’assassino di Polemone e della bella Mirteo. — Mirteo! Mirteo! gridai ruggendo ma senza abbandonare la tavola salutare. — Lucio, Lucio! rispose ella mezzo addormentata, dunque tu non dormirai tranquillo mai quando hai vuotato una coppa di più!? Che gli dei infernali ti perdonino e tu non abbia a disturbare più il mio riposo. Amerei meglio dormire col fracasso del martello di mio padre, nella bottega dove egli tormenta il rame, piuttosto che fra i terrori notturni del tuo palazzo.

E mentre ella parlava, io mordeva ostinato il legno umettato dal mio sangue frescamente sparso e mi rallegrava di sentir crescere le tristi ali della morte, che si spiegavano lentamente al disopra del mio collo mutilato. Tutti i pipistrelli del crepuscolo mi sfioravano carezzevoli dicendomi: — Prendi delle ali!... ed lo cominciava a battere con sforzo non so quali brandelli che mi sostenevano appena. Tuttavia provai a un tratto un’illusione rassicurante. Dieci volte battei lo funebri cornici col movimento di questa membrana quasi inanimata che mi trascinavo attorno come i piedi flessibili di un rettile che striscia sulla sabbia delle fontane; dieci volte io nel far le prove balzai a poco a poco nell’umida nebbia. Com’essa era cupa e diacciata! e come sono tristi i deserti delle tenebre! Ascesi infine sino all’altezza degli edifici più elevati e mi librai torno tomo allo zoccolo solitario, allo zoccolo che la mia bocca morente aveva appena sfiorato con un sorriso e un bacio d’addio. Gli spettatori erano spariti, i rumori cessati, gli astri nascosti, la luce svanita. L’urla era immobile a il cielo glauco, scolorito, freddo come latta ossidata. Non restava nulla di quanto aveva visto, di quanto aveva immaginato sulla terra, e l’anima mia spaventata di rivivere ancora, fuggiva con terrore una solitudine più immensa; una oscurità più profonda della solitudine e dell’oscurità del nulla. Ma quest’asilo ch’io cercava, non lo trovavo mai. M’innalzavo come la farfalla notturna che ha rotto allora allora le sue fasce misteriose per dispiegare il lusso inutile de’ suoi adornamenti di porpora, d’azzurro e d’oro. Se essa scorgeva da lungi la finestra del faggio che veglia, scrivendo alla luce d’una lampada di poco valore, o quella d’una sposa novella il cui marito si è trattenuto alla caccia, sale, cerca di posarsi, batto i vetri fremendo, s’allontana, ritorna, rotea,