Pagina:Novelle lombarde.djvu/171

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Sonavano certe campane, che non pareva un tempo da far credenza. Fior di galantuomini, signori de’ primi, e preti e autorità si udiva che erano stati messi alle strette, e cacciati sa Dio fin dove e fin quando: onde gli amici mi dicevano. Quest’aria non fa per te Carlandrea; i nemici mi guardavano con certe ciere, che volevano dire, Non isperare di levartela liscia. Il fatto fu che, volendo essere uccello di bosco non di gabbia, salutai la mia Rita e sua madre, che tanto più stavano in affanno, quanto si conosevano causa del mio male: e imbracciato il mio fucile, mi immacchiai.

Ma di scostarmi non mi dava l’animo. Stavo un giorno senza vedere il piccolo campanile del piccolo mio villaggio? parevo un pesce fuori dell’acqua; mi crepava il cuore, e bisognava tornassi. Spesso anche la sera volevo arrivare sino a casa della Rita. Il resto me lo facevo pei campi e pei boschi, e dormivo alla stella: al tempo dei lavori di campagna, m’esibivo a qualche contadino per ajutarlo di costa: ammazzavo qualche uccello, e tanto tirava innanzi.

Però quel vivere su per su, non dormir mai nel proprio letto, non trovarsi fra’ suoi amici, non saper mai quel che si farebbe domani, e stare continuo col batticuore di esser côlto, e passare fin le domeniche senza messa; quel fare insomma la vita del ladro e del bandito, non era pane pe’ miei denti. Cattive azioni, lo sa Dio, non ne ho mai commesse: ma intanto non potevo portar il mio cappello fuor degli occhi: m’accostava ad alcuno? Lo vedeva sbirciarmi con quell’aria adombrata, che fa tanto male a un galantuomo.

Per istracco, io risolveva di farne dentro o fuora,